lunedì 31 dicembre 2012

Il lavoro alla cava, il riscatto sociale e altre storie


Quando avevo undici anni, alle scuole medie, la mia maestra ripeteva sempre che se non studiavamo saremmo stati bocciati e che se saremmo stati bocciati il destino che ci attendeva era la cava. Lavorare alla cava era la cosa più brutta che poteva capitarti, la maestra descriveva il lavoro in termini tragici, come un’instancabile marcia sotto il sole, non intervallata da pause e senza possibilità di bere acqua. Quelle descrizioni turbavano i miei sogni notturni e immaginavo il mio compagno di scuola Moraglino, che era stato già bocciato due volte, e andava per la terza, trascinare blocchi pesanti di roccia sotto il sole, sudato e a prendere ordini da un padrone cattivo. Ogni volta che faceva scena muta a un’interrogazione, o prendeva un brutto voto a un compito, lo guardavo con sofferenza e i miei occhi volevano dirgli: “ma come, non lo sai, sei ad un passo dal baratro! devi reagire, salvarti finchè sei in tempo, non vorrai mica andare a lavorare in cava?!?”. Ma lui viveva libero e felice e sembrava non lasciarsi scalfire da questi pensieri, anzi sorrideva quando prendeva un brutto voto, con il sorriso di chi sa che tanto se la caverà comunque. Alla fine del mio primo anno di scuola media Moraglino fu bocciato e non ne ho più saputo niente; me lo immaginavo a lavorare nella cava, con la canottiera strappata e piena di sudore, arso dalla sete e senza la possibilità di bere fino alla fine del turno. Io, da parte mia, ho sempre studiato, sia perché mi piaceva conoscere, imparare cose nuove, sia perché provenendo da una famiglia non abbiente sapevo che l’unica cosa che potevo fare per “riscattarmi” era studiare. Riscatto sociale, non so quando ho esattamente imparato questo termine, ma so che tale concetto è entrato presto nella mia vita, forse proprio durante il primo anno della scuola media, quando mi hanno insegnato che se nella vita non vuoi andare a lavorare in una cava devi studiare, perché solo studiando puoi ottenere un buon lavoro e solo un buon lavoro può darti tutto quello che la tua famiglia d’origine non ti ha potuto dare, ma che tu un giorno potrai avere, solo ed esclusivamente per tuoi meriti.
E così ho lasciato andare via tutto il resto negli anni delle superiori, niente doveva distrarmi dal mio obiettivo primario: studiare. E poi l’università, dove i meritevoli hanno le borse di studio e io l’ho sempre presa perché dovevo restituire ai miei genitori (se pur in minima parte) un po’ di quello che loro mi avevano dato, con fatica ed enormi sacrifici, perché studiare all’università costa. E tra un esame e l’altro, passati brillantemente, pensavo alla cava, al fatto che io non ci sarei finita, perché io ero padrona del mio destino, io avevo un’arma, potevo studiare e riscattare la mia condizione. Una volta laureata avrei fatto un lavoro che mi avrebbe ripagato di tutti i sacrifici, ma soprattutto avrei ripagato i miei genitori di tutti i sacrifici fatti per me: volevo regalargli una crociera, una all’anno, per ringraziarli di tutto, per la possibilità che mi stavano dando di studiare. Dopo l’università ho iniziato il dottorato e quindi ho dovuto solo posticipare (così pensavo) i miei sogni di gloria e di benessere, un giorno sarei stata una ricercatrice e allora avrei riavuto indietro tutto. Dopo il dottorato ho iniziato un post-doc, ma di concorsi neanche l’ombra, allora dopo sette anni di precariato ho deciso che ne avevo abbastanza e sono andata a lavorare in un’azienda. In azienda ho almeno una certezza, quella di prendere lo stipendio ogni mese (almeno per il momento) però guadagno appena il necessario per mantenermi e la crociera ai miei non posso ancora regalarla, non ho ancora una casa mia, non ho ancora visto il mio riscatto sociale. Nella mia azienda si parla di esuberi, di riduzione di stipendi (già bassissimi) e di possibile fallimento.
E allora ho tentato anche io il concorsone (concorso a cattedra), e dopo aver superato il quizzone, eccomi qui a studiare per le prove scritte, durante le vacanze di natale, ancora una volta studiare, non per un riscatto, ma per un posto di lavoro che mi consenta di vivere una vita più umana, di non stare 12 ore fuori casa e guadagnare il minimo sindacale.
Ironia della sorte, la classe di concorso in cui posso insegnare è la stessa di mio padre, che era un insegnante di educazione tecnica nella scuola media, solo che lui per arrivarci all’insegnamento ha preso un diploma di istituto tecnico con il minimo dei voti e ha fatto e vinto il concorso senza nemmeno studiare. Io ho preso una laurea in ingegneria con il massimo dei voti (dopo un diploma di liceo con il massimo dei voti), un dottorato in informatica e sono qui a studiare, ancora, a 33 anni per un posto senza ansie.
Alla fine, forse, farò lo stesso lavoro di mio padre. Esattamente come i miei genitori alla mia età, vivo in una casa in affitto e diversamente da loro, che alla mia età avevano già due figli, io non ho ancora il coraggio di farne uno. Il riscatto sociale, questo sconosciuto, non l’ho ancora mica visto, e la bambina che c’è in me si chiede dove ha sbagliato, cosa avrebbe dovuto fare che non ha fatto o se, invece, l’hanno semplicemente presa in giro.
Oggi finisce l’anno e, dopo questa breve interruzione, ritornerò a studiare la legislazione scolastica e poi forse farò un brindisi all’anno che viene, sperando sia migliore di quello appena passato, sperando, l’anno prossimo, di raccontare una storia nuova.

domenica 11 novembre 2012

Volersi bene


E’ da un po’ di tempo che ho scelto di escludere il glutine dalla mia alimentazione. Quando lo dico in giro di solito la prima reazione è: “ma perché? sei celiaca?”. All’inizio non sapevo cosa rispondere, dicevo no, è solo che sto meglio da quando non lo mangio. Di solito questo provocava infinite discussioni sul perché e percome e sul non doversi “curare da soli” e stare attenti a bilanciare l’alimentazione e andare dai dottori o semplicemente non stare a “rompere le scatole con seghe mentali” (magari non lo dicevano, ma lo pensavano).
Adesso, invece, taglio corto dicendo che sono intollerante e basta, e di solito la discussione finisce lì e nessuno rompe a me le scatole. Questo mi ha fatto riflettere su come spesso le persone sono concentrate sulla malattia e non sullo stare bene. E sul come cambia drasticamente la prospettiva nel dire “Mi fa stare male mangiare glutine” invece del “Mi fa stare bene non mangiare glutine”, la prima frase è di gran lunga più accettata della prima, senza fare troppe discussioni. Come se la malattia fosse più accettata rispetto alla voglia di una persona di stare meglio.
E poi, la seconda cosa che mi ha stupito è vedere le reazioni che questa cosa provoca. A parte che in Italia è difficilissimo seguire una dieta gluten-free, in primis perché è tutto a base di glutine: pasta, pane, focacce, pizze, torte e dolci in genere. E poi perché la gente non accetta che tu possa non voler mangiare questi alimenti che sono alla base della dieta mediterranea e della loro dieta e ti guarda semplicemente come un rompiscatole (se hai detto che il glutine non lo mangi per scelta) o con compassione (se hai inventato che sei celiaco o intollerante). Ieri mentre ero a cena in un ristorante mi è capitato di discutere con un mio amico di questa scelta e della mia scelta di non mangiare carne rossa, latte e latticini. Dopo avermi guardato con gli occhi sbarrati, mi ha detto che lui non avrebbe mai potuto fare una scelta così drastica, in quanto la vita è già piena di rinunce, quindi perché privarsi anche del piacere del cibo?
Posto che credo che non esista una ricetta che vada bene per tutti, io ho cercato di spiegargli che in realtà per me non è una rinuncia, che forse lo è stata all’inizio, ma che quando ho iniziato a vederne i benefici per me non è più stata una rinuncia: io se vedo un pezzo di pane o un piatto di pasta non sono dilaniata dal fatto di non poterlo mangiare, non lo desidero, tutt’altro, semplicemente non ho voglia di mangiarlo perché so che fa male al mio corpo, e io non voglio farmi male perché mi voglio bene. Volere bene al proprio corpo è il primo passo per stare meglio e per iniziare a volersi bene e rispettarsi nella propria interezza, corpo, sentimenti, sogni e desideri, tutto.
Non si tratta di rinunciare, ma piuttosto di imparare ad amare, se stessi, che è il primo passo per poter amare in maniera sana anche gli altri.

venerdì 10 agosto 2012

La vita che vogliamo

Torno a scrivere dopo un po' di tempo per parlare di Alex Schwazer, ma non voglio unirmi alla massa di ipocriti ben pensanti che sono pronti subito a lanciare pietre, come se loro non fossero interessati dal peccato. Non voglio unirmi alla folla di persone cui non è parso vero, per una volta, avere un bersaglio facile, una persona che si prende tutte le colpe, che dice "ho sbagliato e non è colpa di nessun altro se non mia". Qualcuno che si dimette, qualcuno che non dice "non è colpa mia, l’Epo me l’hanno iniettata nel sonno a mia insaputa" così come i mutui e le vacanze che vengono pagate di nascosto. No, io non voglio parlare di questo, né della serietà di chi ammette di aver sbagliato e chiede scusa e vuole pure pagare, di questo non parlo, anche se personalmente una persona così ha tutta la mia solidarietà, perché di sbagliare capita a tutti, di ammettere le proprie colpe, chiedere scusa e pagare, a pochi, proprio a pochi. Ho avuto la pazienza di ascoltare tutta l'intervista di Schwazer e dopo i primi 30 minuti, tralasciando la parte drammatica e quella delle insinuazioni, c’è una parte che mi ha colpita e che nessuna TV ha mandato in onda. Quando viene chiesto a Alex il perché di questo suicidio sportivo, se non era meglio semplicemente ritirarsi. E lui risponde che ritirarsi era praticamente impossibile, che le pressioni erano troppe e che lui voleva solo una vita normale. A lui la marcia non piaceva, gli dava la nausea e per 8 lunghi anni lui ha praticato uno sport non perché questo sport fosse una passione, ma per senso del dovere e di responsabilità, per non deludere le aspettative che gli altri avevano nei suoi confronti. Ho pensato a come può essere possibile svegliarsi ogni mattina e allenarsi per 6 ore in uno sport che non è la tua passione e farlo ogni giorno per 7 giorni alla settimana e arrivare anche a vincere l’olimpiade. Poi ho pensato che è quello che la stragrande maggioranza di noi fa ogni giorno, quando si alza al mattino e va in ufficio a lavorare, a fare un lavoro che non gli piace, per 8 ore al giorno, per 5 giorni a settimana, per anni, come per 8 anni Alex si è allenato per marciare, anche se la cosa lo disgustava. Ho pensato a quanti di noi lo fanno e a questo dovremmo pensare prima di porre la domanda: "Ma non era più semplice ritirarsi?". A volte la vita sembra così complicata, i genitori, i fidanzati, siamo schiacciati da pressioni che ci sembrano insormontabili e che ci portano a fare cose che non vogliamo e non amiamo per anni, fino a quando un giorno decidiamo di fare qualcosa che ci annienti definitivamente, per poter toccare il fondo e ripartire, da lì, dal punto più basso, per avere non una vita normale, ma semplicemente la vita che vogliamo.

sabato 11 febbraio 2012

La parola agli altri...per una volta

Relativamente al mio ultimo post volevo segnalarvi alcuni post di autori vari, tutti, in qualche modo, correlati con l’argomento università, sogni e caduta degli stessi. Perché di gente che parla del sogno impossibile (che a volte si trasforma in un incubo) di stare all’università, ne è pieno il mondo. A partire da una fonte autorevole come l’Economist il cui post "Why doing a PhD is often a waste of time" spiega come spesso gli studenti di dottorato siano “usati” dall’università come manodopera a buon mercato sfruttando il sogno che questi coltivano di diventare un giorno professori. Il post si conclude con una frase molto dura, che però ho sperimentato sulla mia pelle essere vera: "pochi saranno in grado di accettare che nemmeno l’impegno costante e l’essere geniali potranno essere sufficienti per farcela, e che, alla fine avrebbero fatto meglio a fare qualcos’altro nella vita" (mia libera traduzione dal sito). Un altro post molto critico sul sistema universitario che sfrutta i sogni di questi ragazzi che intraprendono la strada del dottorato sperando un giorno di divenire professori universitari è quello di Larry Cebula che in una lettera aperta ai suoi studenti molto esplicitamente dichiara "No, tu non puoi essere un professore". Nel post l’autore chiede a chi è dall’altra parte della cattedra di essere onesto, di non alimentare le illusioni e di dire francamente a questi ragazzi che, sic stantibus rebus, è più facile vincere alla lotteria che diventare professori. Così scrive (anche in questo caso la mia è una libera traduzione dal sito): "No, non diventerai un professore famoso, questo non accadrà. Prima accetti questa cosa e meglio sarà per te. Questo non perché tu non sia abbastanza intelligente. Tu sei abbondantemente intelligente. In ogni caso, portare a termine un dottorato è più una questione di perseveranza che di intelligenza. La ragione per la quale non diventerai un professore è che semplicemente questo lavoro sta sparendo, e nonostante questo i programmi di dottorato continuano a sfornare il più elevato numero di Ph.D. di sempre." Infine, come non citare "Goodbye Academia I get a life" che è stato probabilmente uno dei primi post che ho scoperto sull’argomento e che mi ha molto affascinato per come la situazione del protagonista rispecchiava la mia, tanto da ispirare il titolo di un mio post . L’autore (tra l’altro italiano) racconta come uno dei suoi primi ricordi d’infanzia risalga ai suoi cinque anni quando dichiarava fiero a sua madre che sarebbe diventato uno scienziato. Nel post spiega la differenza tra i sogni e la realtà, tra l’amare la scienza e il praticarla, cosa, quest’ultima, che svela spesso un mondo poco ortodosso, in cui si è disposti a tutto pur di farsi spazio, ma essere scienziati non dovrebbe poi essere un "mestiere nobile"? Intrappolato nel sogno, quando si è accorto di aver perso la sua vita, almeno due relazioni sentimentali importanti e aver, in cambio, guadagnato una gastrite permanente e sei mesi di cura con antidepressivi, ha deciso di lasciare tutto. E in quel momento si è ricordato che l’università non era tutto nella sua vita, che prima che la sua vita fosse permeata dalla ricerca al 100% lui aveva numerosi altri interessi, cose che amava e che avrebbe voluto iniziare a fare di nuovo. E così termina: "Lasciare l’università per reclamare la propria vita non è un fallimento, è svegliarsi e vincere."

martedì 31 gennaio 2012

Prigionieri di un sogno

Oggi ho vissuto un’esperienza che voglio raccontare in quanto mi ha aperto gli occhi sulla natura della mente umana e sulla sua capacità di intrappolarci in ciò che ci convinciamo essere dei sogni e che, invece, sono molto più simili a incubi. Oggi sono andata a fare forse l’ultimo concorso della storia che assegnava un posto come “ricercatore a tempo indeterminato”, una chimera ormai, una cosa che ai nostri figli sarà raccontata come una di quelle cose belle dei tempi andati, tanto ambite e che, poi, purtroppo, come tante cose, sono sparite (forse per allora sarà sparito anche l’art.18). Ci sono andata un po’ controvoglia e consapevole, dopo numerosi concorsi, che tanto è inutile se non sei tu “il candidato prescelto”. Però, alla fine, la speranza è sempre l’ultima a morire, e anche se faccio un altro lavoro ormai, uno ci spera sempre che magari nella commissione due su tre commissari siano giusti, o che per un attimo si sovvertano le regole o più semplicemente uno ci va perché non vuole un giorno svegliarsi con il rimorso di non averci provato, “e se al candidato designato si rompe la macchina e non fa in tempo ad arrivare al concorso?” E così giochiamo ogni volta questa lotteria, con la speranza che qualcosa possa cambiare e la consapevolezza che nulla cambierà mai. Oggi ho avuto l’occasione di rivedere ex-colleghi, ricercatori precari come io lo ero solo fino a qualche mese fa, gente che incontro, periodicamente, ai concorsi. La cosa triste è che tutte queste persone mi sono di colpo apparse diverse dalle altre volte, sarà che li guardavo da un’altra prospettiva, non so, però notavo i loro capelli bianchi, i visi segnati dalla stanchezza (più mentale che fisica), ma soprattutto il loro “avvelenamento” nei confronti dell’Università italiana, che sembrano amare e odiare profondamente allo stesso tempo. Per cui mi sono sembrati di colpo prigionieri, prigionieri di un sogno, li rivedevo nella mia mente quando li avevo conosciuti, freschi di dottorato, entusiasti, felici, vogliosi di fare cose grandi e importanti. Adesso li vedevo davanti a me, rabbiosi, delusi, avvelenati. Vogliosi di stare all’università ormai per una sola ragione: avevano investito troppi anni della loro vita, troppi week-end, troppe vacanze mancate, per accettare adesso di mollare tutto. Il posto era un loro diritto, perché lo avevano conquistato sul campo di battaglia e adesso meritavano quella medaglia. Mi sono parsi ciechi, accecati da un sogno che ormai li imprigiona come un incubo, che devono per forza realizzare per non sentirsi inutili, falliti, perdenti. Ma quale vittoria li aspetta? Un sogno può dirsi ancora tale quando ti avvelena la vita e ti “scava” dentro fino a svuotarti di ogni entusiasmo? Quando realizzarlo diventa un obbligo più che un piacere? Se un sogno imbruttisce la nostra anima non può dirsi sogno, il sogno rende liberi, non incatena, non imprigiona. Quando ho lasciato l’università italiana è stato proprio perché sentivo che qualcosa stava iniziando ad incrinarsi dentro, che l’essere sempre arrabbiata, frustrata, stressata non era la vita che avevo sempre sognato, appunto sognato(!). La felicità, per quanto può essere arduo da credere, dopo che si è investito tanto in un “lavoro”, non viene dal lavoro che facciamo, non viene neanche dal realizzare (quelli che crediamo siano) i nostri sogni, non quando un sogno ci spegne il sorriso, ci avvelena e non ci fa più vedere il bello che c’è intorno e che ci può rendere felici anche quando con il nostro lavoro non ha nulla a che fare. Sono contenta di essere andata via dall’università italiana, anche se il lavoro di adesso non mi entusiasma, ma credo di essermi accorta in tempo che continuare con l’università non faceva bene alla mia anima, una piccola vocina del cuore mi ha spinto a scappare, non da un sogno, ma da un incubo.

sabato 7 gennaio 2012

Buoni propositi per il 2012

L’inizio di un nuovo anno è sempre caratterizzato da buoni propositi, però io non so ancora quali saranno i miei buoni propositi per quest’anno e quindi faccio un passo indietro, prima di pensare al futuro voglio pensare al passato, voglio fare una review di questo anno appena trascorso e vedere un po’ cosa ho combinato, di bello e…di brutto. La prima cosa che mi viene in mente è sicuramente lo shiatsu, anche perché forse è stata la prima cosa importante dell’anno appena trascorso: a gennaio 2011 ho iniziato la scuola di shiatsu ed è ormai un anno che sono parte di questo meraviglioso mondo, fatto di relazione con l’altro, basata sul rispetto, la compassione, il non giudizio, in una sola parola…l’amore. Sono contenta di aver intrapreso questa strada, così diversa da quelle che percorro abitualmente, ma che sento in un certo senso appartenermi, anche se non so bene dove mi porterà (ma questo è un altro post). Poi sempre quest’anno ho dato seguito a un mio vecchio buon proposito dell’anno 2009 (!!!) quello di imparare lo spagnolo. Certo, a onor del vero, c’è da dire che ho solo frequentato un corso base e cha da giugno a oggi ho già praticamente dimenticato tutto…però è un inizio, almeno! Sempre a giugno, oltre a finire il corso di spagnolo, ho anche finito il mio rapporto con l’università, dopo 7 anni, e si, come per i matrimoni, la crisi si fa sentire sempre al settimo anno! E’ stata una scelta sofferta, ma inevitabile, obbligata, che però non rimpiango, perché in “quelle condizioni” non si poteva veramente andare avanti. Da metà anno ho una nuova vita, vivo anche in una città diversa, insomma un po’ di cambiamenti. Nel Gennaio del 2009 avevo anche fatto altri due buoni propositi, il primo, leggere più libri, quest’anno è stato pienamente rispettato e, grazie ad aNobii, potete dare un’occhiata a quanti ne ho letti solo in metà anno! L’ultimo proposito del 2009 recitava: "Capire cosa voglio fare da grande (L'impresa più ardua)". Su questo non posso dire di aver fatto dei grandi passi in avanti, procedo a tentoni, per trial and error, e dopo tre anni brancolo ancora nel buio. Mi è capitato, a volte, di credere che alcune strade fossero la strada giusta, ma oggi posso dire che la strada giusta non so ancora quale sia con precisione. E non ho per questo post una conclusione a effetto, una frase che vi lasci sorpresi o meravigliati, niente di tutto questo, so solo che da qualche parte nel mio cuore è nascosta la chiave della felicità, ma che è ricoperta da troppe cose, e che c’è bisogno di essere presenti, molto più presenti per capire dove veramente voglio andare. Il buon proposito per questo nuovo anno potrebbe essere questo: "essere più presenti a sé stessi, andare nel profondo del proprio cuore e ascoltarlo, zittendo la mente per più di qualche istante, in modo da capire quello che veramente siamo e vogliamo". Tutto il resto, sono certa, arriverà di conseguenza. Vediamo se almeno questo proposito riesco a mantenerlo.

lunedì 2 gennaio 2012

La bellezza nascosta della Calabria

Quest’anno ho deciso per la prima volta di fare un capodanno diverso, di solito preferisco non uscire e stare con la famiglia, anche perché odio i veglioni nelle sale ricevimento, dove paghi un sacco e devi “per forza” divertirti. Abbiamo optato per una gita fuori porta, poiché due amici dovevano venire a trovarci e volevamo portarli un po’ in giro. Alla fine questi nostri amici non sono venuti più, ma noi abbiamo deciso lo stesso di andare…dove lo abbiamo deciso il 30 gennaio, come sempre last minute.
Ma, come sempre, ho mantenuto il mio fiuto per i b&b e ho scelto un posto veramente carino, o almeno così sembrava in foto…dal vivo avremmo avuto modo di verificare presto.
E così siamo partiti il 31 mattina alla volta della Calabria, statale 106, un incubo d’estate, ma quasi deserta mentre la percorrevamo in scioltezza, quasi come in quei film americani che raccontano di avventurosi coast-to-coast.
La prima tappa è stata Roseto capo spulico e il suo spettacolare castello.

Il sole splendeva e si rifletteva sul mare e lì abbiamo pranzato con mandarini, uva e ciambella, in previsione del cenone ci siamo tenuti leggeri ;).
Poi abbiamo ripreso il viaggio e dopo poco abbiamo lasciato la 106 per iniziare a salire sui monti, destinazione Civita. Un paesino arroccato su un monte da cui si ha una splendida vista del golfo dello Ionio. Il b&b “La Ginestra” era anche meglio che in foto, e la signora Dina simpaticissima ci ha subito offerto i dolcetti fatti in casa. Ci siamo trovati da subito immersi in un’atmosfera a misura d’uomo e siamo partiti alla scoperta delle Gole del Raganello e del ponte del Diavolo.

La discesa è stata lunga, ma la salita dopo lo è stata ancor di più! Però la vista delle gole ci ha ricompensato della fatica e ci ha fatto venir voglia di tornare in estate per poter esplorare i vari sentieri che si dipanavano e si inoltravano nella vegetazione.
Siamo tornati nel b&b stremati e dopo un riposino siamo andati in paese. Abbiamo scoperto entrando nell’unica Chiesa del paese che Civita è una comunità arbëreshë e come tale segue il rito ortodosso, per cui la Chiesa conservava le bellissime icone greco-ortodosse. Abbiamo assistito a una parte del rito, alla fine del quale il sacerdote ha illustrato un po’ di statistiche sul paesino, tipo il fatto che aveva 955 abitanti (quindi rischiava di essere cancellato), che vi erano stati 19 morti e 6 nascite, 22 immigrati e 24 emigrati, 12 battesimi e 4 matrimoni (ma tutti di forestieri). Insomma, un paesino che, come molti, si va spopolando, ma che conserva intatta la sua bellezza.
La sera ci aspettava il cenone in un ristorante del paese, non sapevamo cosa aspettarci, chi avrebbe partecipato, giovani, anziani, avremmo ballato tutta la sera mazurche? In realtà non ci importava molto, eravamo contenti di essere in un paesino, lontani dal mondo senza pensieri. Alle 21 siamo arrivati al ristorante, due sale, non grandissime, foto di Gattuso alle pareti, animazione musicale non eccelsa, ma ci dava l’idea di essere tornati indietro di qualche anno, però il tutto era compensato da cibo sopraffino. I commensali erano poi molto folcloristici, una famiglia con zie, zii, cugini e la matriarca (la nonna :) che erano di un’eleganza quasi fuori luogo, e un po’ cozzavano con l’atmosfera casereccia del posto, ma davano colore. Poi, mischiati ai turisti, la gente del luogo, anche loro con l’abito della festa. Accanto al nostro tavolo c’era una coppia di fidanzati, lui ha passato tutta la serata a mimarle il menu, e sembravano divertirsi un sacco a fare questo gioco, tanto che non hanno mai smesso un attimo. Al tavolo accanto c’era una coppia di gente del luogo, lei, una signora sulla cinquantina, aveva una passione sfrenata per il ballo e avrebbe ballato tutta la serata, se solo suo marito gliel’avesse concesso.
Due tavoli più in là una coppia di cinquantenni, compagni, non sposati, totalmente immersi nel mondo 2.0, dotati di Iphone hanno passato tutta la serata ad aggiornare il loro stato su Facebook e a controllare eventuali commenti, alla faccia di chi dice che sono i giovani ad sempre immersi nel mondo dei social network! Infine i più strani erano un trio: lui, lei e l’altro. Solo che l’altro sembrava essere più l’altro di lui che di lei. I due ragazzi hanno infatti passato tutta la serata a parlare e scambiarsi sguardi interessati, mentre la fidanzata di uno dei due li guardava con sguardo annoiato. La mezzanotte è arrivata, sono arrivate anche le lenticchie con il cotechino e infine anche l’ora di andare a dormire, contenti e felici. La mattina ci aspettava una colazione a base di prodotti tipici: crostate, biscotti fatti in casa, code di rospo farcite di marmellate fatte in casa, e poi, naturalmente, caciocavallo e prosciutto di produzione propria…non avevamo molta fame, ma non abbiamo saputo dire di no, non potevamo proprio.
Siamo quindi partiti alla volta di Cerchiara, alla scoperta del Santuario della Madonna delle Armi, un santuario arroccato a più di 1000m di altezza alle pendici del monte Sellaro.

Uno spettacolo, non solo il monastero, ma anche la vista, tutto il golfo dello Jonio e tutta la Calabria, fin quasi alla sua punta estrema.
Questo viaggio mi ha fatto riscoprire la Calabria come terra ricca di luoghi bellissimi, troppo spesso sottovalutata e poco valorizzata.
Torneremo ancora, altre avventure ci aspettano, sperando di rincontrare la gente semplice e affettuosa che ci ha accolto questa volta come fossimo due di famiglia.