Quando avevo undici anni, alle scuole medie, la
mia maestra ripeteva sempre che se non studiavamo saremmo stati bocciati e che
se saremmo stati bocciati il destino che ci attendeva era la cava. Lavorare
alla cava era la cosa più brutta che poteva capitarti, la maestra descriveva il
lavoro in termini tragici, come un’instancabile marcia sotto il sole, non
intervallata da pause e senza possibilità di bere acqua. Quelle descrizioni
turbavano i miei sogni notturni e immaginavo il mio compagno di scuola Moraglino,
che era stato già bocciato due volte, e andava per la terza, trascinare blocchi
pesanti di roccia sotto il sole, sudato e a prendere ordini da un padrone
cattivo. Ogni volta che faceva scena muta a un’interrogazione, o prendeva un
brutto voto a un compito, lo guardavo con sofferenza e i miei occhi volevano
dirgli: “ma come, non lo sai, sei ad un passo dal baratro! devi reagire,
salvarti finchè sei in tempo, non vorrai mica andare a lavorare in cava?!?”. Ma
lui viveva libero e felice e sembrava non lasciarsi scalfire da questi
pensieri, anzi sorrideva quando prendeva un brutto voto, con il sorriso di chi
sa che tanto se la caverà comunque. Alla fine del mio primo anno di scuola
media Moraglino fu bocciato e non ne ho più saputo niente; me lo immaginavo a lavorare
nella cava, con la canottiera strappata e piena di sudore, arso dalla sete e
senza la possibilità di bere fino alla fine del turno. Io, da parte mia, ho
sempre studiato, sia perché mi piaceva conoscere, imparare cose nuove, sia
perché provenendo da una famiglia non abbiente sapevo che l’unica cosa che
potevo fare per “riscattarmi” era studiare. Riscatto sociale, non so quando ho
esattamente imparato questo termine, ma so che tale concetto è entrato presto
nella mia vita, forse proprio durante il primo anno della scuola media, quando
mi hanno insegnato che se nella vita non vuoi andare a lavorare in una cava
devi studiare, perché solo studiando puoi ottenere un buon lavoro e solo un
buon lavoro può darti tutto quello che la tua famiglia d’origine non ti ha
potuto dare, ma che tu un giorno potrai avere, solo ed esclusivamente per tuoi
meriti.
E così ho lasciato andare via tutto il resto negli
anni delle superiori, niente doveva distrarmi dal mio obiettivo primario:
studiare. E poi l’università, dove i meritevoli hanno le borse di studio e io
l’ho sempre presa perché dovevo restituire ai miei genitori (se pur in minima
parte) un po’ di quello che loro mi avevano dato, con fatica ed enormi
sacrifici, perché studiare all’università costa. E tra un esame e l’altro,
passati brillantemente, pensavo alla cava, al fatto che io non ci sarei finita,
perché io ero padrona del mio destino, io avevo un’arma, potevo studiare e
riscattare la mia condizione. Una volta laureata avrei fatto un lavoro che mi
avrebbe ripagato di tutti i sacrifici, ma soprattutto avrei ripagato i miei
genitori di tutti i sacrifici fatti per me: volevo regalargli una crociera, una
all’anno, per ringraziarli di tutto, per la possibilità che mi stavano dando di
studiare. Dopo l’università ho iniziato il dottorato e quindi ho dovuto solo
posticipare (così pensavo) i miei sogni di gloria e di benessere, un giorno
sarei stata una ricercatrice e allora avrei riavuto indietro tutto. Dopo il
dottorato ho iniziato un post-doc, ma di concorsi neanche l’ombra, allora dopo
sette anni di precariato ho deciso che ne avevo abbastanza e sono andata a
lavorare in un’azienda. In azienda ho almeno una certezza, quella di prendere
lo stipendio ogni mese (almeno per il momento) però guadagno appena il
necessario per mantenermi e la crociera ai miei non posso ancora regalarla, non
ho ancora una casa mia, non ho ancora visto il mio riscatto sociale. Nella mia
azienda si parla di esuberi, di riduzione di stipendi (già bassissimi) e di
possibile fallimento.
E allora ho tentato anche io il concorsone
(concorso a cattedra), e dopo aver superato il quizzone, eccomi qui a studiare
per le prove scritte, durante le vacanze di natale, ancora una volta studiare,
non per un riscatto, ma per un posto di lavoro che mi consenta di vivere una
vita più umana, di non stare 12 ore fuori casa e guadagnare il minimo
sindacale.
Ironia della sorte, la classe di concorso in cui
posso insegnare è la stessa di mio padre, che era un insegnante di educazione
tecnica nella scuola media, solo che lui per arrivarci all’insegnamento ha
preso un diploma di istituto tecnico con il minimo dei voti e ha fatto e vinto
il concorso senza nemmeno studiare. Io ho preso una laurea in ingegneria con il
massimo dei voti (dopo un diploma di liceo con il massimo dei voti), un
dottorato in informatica e sono qui a studiare, ancora, a 33 anni per un posto
senza ansie.
Alla fine, forse, farò lo stesso lavoro di mio
padre. Esattamente come i miei genitori alla mia età, vivo in una casa in
affitto e diversamente da loro, che alla mia età avevano già due figli, io non
ho ancora il coraggio di farne uno. Il riscatto sociale, questo sconosciuto,
non l’ho ancora mica visto, e la bambina che c’è in me si chiede dove ha
sbagliato, cosa avrebbe dovuto fare che non ha fatto o se, invece, l’hanno
semplicemente presa in giro.
Oggi finisce l’anno e, dopo questa breve
interruzione, ritornerò a studiare la legislazione scolastica e poi forse farò
un brindisi all’anno che viene, sperando sia migliore di quello appena passato,
sperando, l’anno prossimo, di raccontare una storia nuova.